Divino afflante Spiritu (Enciclica di Pio XII - 30.09.1943)
L'interprete con ogni diligenza, non trascurando quei nuovi lumi, che le moderne indagini avessero apportati, procuri di discernere quale sia stata l'indole propria del sacro autore, quali le condizioni della sua vita, in qual tempo sia vissuto, quali fonti, scritte od orali, abbia adoperate, di quali forme del dire si avvalga. Così potrà più esattamente conoscere chi sia stato l'agiografo, e qual cosa abbia voluto dire nel suo scritto. Nessuno ignora infatti che la suprema norma d'interpretare è ravvisare e stabilire che cosa si proponga di dire lo scrittore, come egregiamente avverte sant'Atanasio: «Qui – come in ogni altro luogo della Scrittura si ha da fare – deve osservarsi in qual occasione abbia parlato l'Apostolo, chi sia la persona a cui scrive, per quale motivo le scriva; a tutto ciò si deve attentamente e imparzialmente badare, perché non ci accada, ignorando tali cose o fraintendendo una per l'altra, di andar lontano dal vero pensiero dell'autore».
Quale poi sia il senso letterale di uno scritto, sovente non è così ovvio nelle parole degli antichi orientali com'è per esempio negli scrittori dei nostri tempi. Quel che hanno voluto significare con le loro parole quegli antichi non va determinato soltanto con le leggi della grammatica o della filologia, o arguito dal contesto; l'interprete deve inoltre quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell'Oriente, e con l'appoggio della storia, dell'archeologia, dell'etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch'erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l'esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un'accurata ricognizione delle antiche letterature d'Oriente. Su questo punto negli ultimi decenni l'indagine, condotta con maggior cura e diligenza, ha messo in più chiara luce quali fossero in quelle antiche età le forme del dire adoperate, sia nelle composizioni poetiche, sia nel dettare leggi o le norme di vita, sia infine nel raccontare i fatti della storia.
L'indagine stessa ha pure luminosamente assodato che il popolo d'Israele fra tutte le antiche nazioni d'oriente tenne un posto eminente, straordinario, nello scrivere la storia, sia per l'antichità sia per la fedele narrazione degli avvenimenti, pregi che per verità si possono dedurre dal carisma della divina ispirazione e dal particolare scopo religioso della storia biblica. Tuttavia a nessuno, che abbia un giusto concetto dell'ispiraziane biblica, farà meraviglia che anche negli scrittori sacri, come in tutti gli antichi, si trovino certe maniere di esporre e di narrare, certi idiotismi propri specialmente delle lingue semitiche, certi modi iperbolici o approssimativi, talora anzi paradossali, che servono a meglio stampar nella mente ciò che si vuol dire. Delle maniere di parlare, di cui presso gli antichi, specialmente orientali, si serviva l'umano linguaggio per esprimere il pensiero della mente, nessuna va esclusa dai Libri sacri, a condizione però che il genere di parlare adottato non ripugni affatto alla santità di Dio né alla verità delle cose. L'aveva già, col suo solito acume, osservato il dottore angelico con quelle parole: «Nella Scrittura le cose divine ci vengono presentate nella maniera che sogliono usare gli uomini».29 In effetti, come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, «eccetto il peccato» (Eb 4,15), così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte somiglianti all'umano linguaggio in tutto, eccettuato l'errore. In questo consiste quella condiscendenza (sunkata'basis) del provvido nostro Dio, che già san Giovanni Crisostomo con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò trovarsi nei sacri Libri.
L'esegeta cattolico, per rispondere agli odierni bisogni degli studi biblici, nell'esporre la sacra Scrittura e nel mostrarla immune da ogni errore, com'è suo dovere, faccia pure prudente uso di questo mezzo, di ricercare cioè quanto la forma del dire o il genere letterario adottato dall'agiografo possa condurre alla retta e genuina interpretazione; e si persuada che questa parte del suo ufficio non può essere trascurato senza recare gran danno all'esegesi cattolica. Infatti – per portare solo un esempio – quando taluni presumono rinfacciare ai sacri autori o qualche errore storico o inesattezza nel riferire i fatti, se si guarda ben da vicino, si trova che si tratta semplicemente di quelle native maniere di dire o di raccontare, che gli antichi solevano adoperare nel mutuo scambio delle idee nell'umano consorzio, e che realmente si ritenevano lecite nella comune usanza. Quando adunque tali maniere si incontrano nella divina parola, che per gli uomini si esprime con linguaggio umano, giustizia vuole che non si taccino d'errore più che quando si incontrano nella quotidiana consuetudine della vita. Con l'accennata conoscenza ed esatta valutazione dei modi ed usi di parlare e di scrivere presso gli antichi, si potranno sciogliere molte obiezioni sollevate contro la veridicità e il valore storico delle divine Scritture; e non meno porterà un tale studio ad una più piena e più luminosa comprensione del pensiero del sacro autore.
Attendano dunque i nostri scritturisti con la dovuta diligenza a questo punto, e non tralascino alcuna di quelle nuove scoperte fatte dall'archeologia o dalla storia o letteratura antica, che sono atte a far meglio conoscere qual fosse la mentalità degli antichi scrittori, e la loro maniera ed arte di ragionare, narrare, scrivere. In questa materia anche i laici cattolici sappiano ch'essi non solo gioveranno alla scienza profana, ma renderanno anche un segnalato servizio alla causa cristiana, se con tutta la conveniente diligenza e applicazione si daranno ad esplorare e indagare le cose dell'antichità, e concorreranno così, secondo le loro forze, alla soluzione di questioni sinora non ben chiarite. Infatti ogni cognizione umana, anche non sacra, ha bensì una sua innata dignità ed eccellenza – essendo essa una partecipazione finita dell'infinita conoscenza di Dio – ma ottiene una nuova e più alta dignità e quasi consacrazione, quando si adopera a far brillare di più chiara luce le cose divine.