ho trovato questo articolo di autosprint molto interessante.
Al di là del trionfo di Alonso che lancia Fernando verso il titolo mondiale, viene spontanea una considerazione a caldo: ma gli attuali piloti di F.1 hanno davvero “le palle” oppure no? Niente giri di parole, ma la stessa cruda considerazione che sarà venuta in mente a tutti in quegli eterni minuti prima della partenza del Gp di Corea in cui si aspettava (inutilmente) che smettesse di piovere. Alzi la mano chi - esasperato - non ha pensato la stessa cosa.
Una volta con la pioggia si correva, poche storie. Si stava più cauti, ma si prendeva il via regolarmente. Metà della storia della F.1 è fatta di pagine memorabili e di imprese straordinarie scritte proprio sotto il diluvio. Brambilla a Zeltweg ‘75, Senna e Bellof a Montecarlo ‘84. Poi qualcosa è cambiato da 13 anni, da quel Gp di Belgio ‘97 a Spa in cui per la prima volta si stabilì che una partenza sotto il diluvio fosse troppo pericolosa e ci fu il primo episodio di un Gp scattato dietro la safety car. Certo, oggi sono cambiati tempi, la nostra cultura e le nostre stesse priorità. Gesta che 20/30 anni fa venivano considerate una dimostrazione di coraggio, oggi sono liquidate come rischi inutili. E che le esigenze di sicurezza hanno la precedenza su tutto.
Ma viene da chiedersi: se le corse di F.1 sono la massima espressione della tecnologia ma anche del pilotaggio, non possono offrire il deprimente spettacolo di una Mercedes GT da strada che per 15 giri fa l’andatura alle più raffinate auto da corsa del mondo perché altrimenti quei 24 piloti da soli non sarebbero in grado di restare indenni in pista. È ridicolo. C’è qualcosa che non funziona nel sistema, no?
Anche perché in Corea non c’era un vero nubifragio di quello con venti che soffiano a 100 all’ora, ma poco più di una insistente e fastidiosa pioggerellina, prova ne sia che la maggior parte degli addetti ai lavori se ne stava tranquilla in griglia di partenza senza ombrello, al massimo col cappellino in testa. Nessuno scappava freneticamente via a ripararsi. In quelle condizioni qualsiasi altro sport si sarebbe svolto regolarmente. La F.1, che da sempre è sinonimo di coraggio per chi la pratica per via dei contenuti intrinsechi di velocità e rischio, invece no.
Se i piloti di F.1 sono i più bravi al mondo, allora dovrebbero sapere loro come approcciare al meglio le condizioni avverse per cavarsela. Come adeguare il proprio stile di guida all’asfalto bagnato; quanto accelerare, come frenare senza bloccare le ruote sul viscido, a quanta distanza tenersi dall’avversario per poter avere una sufficiente visibilità davanti.
È incredibile che per 15 giri dietro alla safety car il solo Hamilton continuasse a invocare la partenza, a gridare inascoltato che le condizioni erano buone, che si poteva correre. Ma è stato ancor più incredibile vedere nei minuti prima del via piloti autorevoli contrattare con il pilota della safety car o con la direzione gara quanti giri fare in fila indiana a bassa velocità prima di dare via libera alla vera corsa.
Certo, come Trulli ha ben spiegato, il problema non era l’aderenza sull’asfalto che era buona, quanto piuttosto l’acqua ristagnante che in velocità veniva sollevata dalle ruote e alzandosi creava la nube che toglieva visibilità a chi era alle spalle. Ma quello fa parte del gioco, anzi dello sport.
La scarsa visibilità è sempre stata una costante delle gare sul bagnato: non ci si può scandalizzare oggi. È un ulteriore imprevisto che ognuno deve trovare il modo di affrontare e risolvere a modo proprio. Il ruolo del pilota è proprio quello: saper trovare l’equazione giusta fra come guidare e quanto rischiare. Usare le proprie capacità per controllare la macchina e decidere se prendersi dei rischi per andare più forte e superare, oppure badare prima di tutto a tenersi lontano dai guai. Un’equazione che ognuno è libero di interpretare a proprio modo.
Diciamocela tutta: le polemiche coreane fanno sorridere al confronto col passato. Era molto peggio venti o trenta anni fa, quando l’acqua diminuiva ugualmente la visibilità, ma le macchine erano più insicure, gli asfalti sicuramente più ondulati, le vie di fuga inesistenti e i rischi assai superiori. Ma sono quelle le condizioni che hanno fatto la differenza tra i grandi piloti entrati nelle leggenda e i semplici impiegati del volante che la storia non ricorda. I piloti hanno bisogno di queste situazioni per esaltarsi. E anche per riequilibrare il divario tecnico fra le monoposto. Siamo poi noi spettatori a scegliere di entusiasmarci per chi si comporta in un modo o nell’altro.