DECISIONI DI SECONDO GRADO JUVENTUS F.C. e Altri(minchia se è lunga...)
C - Posizione della Juventus Football Club S.p.a., di Luciano Moggi, di Antonio
Giraudo, di Gianluca Paparesta, di Tullio Lanese, di Pierluigi Pairetto e di Massimo
De Santis.
La struttura dell’atto di accusa si apre con le articolate contestazioni relative alla posizione
della società Juventus che constano di molteplici addebiti, così ripartiti: a) incolpazione,
ex artt. 1, 1° comma e 6, 1° e 2° comma C.G.S., a Luciano Moggi, Antonio Giraudo,
Innocenzo Mazzini, Paolo Bergamo, Pierluigi Pairetto, Tullio Lanese e Massimo De
Santis, nonché a titolo di responsabilità diretta e presunta, alla società in questione, per
avere intrattenuto tra loro contatti indebiti, anche su linee telefoniche riservate, e
realizzato incontri riservati, così ponendo in essere condotte in violazione dei generali
doveri comportamentali e, al contempo, rivolte a condizionare a favore della Juventus, il
settore arbitrale;
b) Moggi e Giraudo, ex art. 1, comma 1, citato e la società per responsabilità diretta, per
aver tenuto, al termine della gara Reggina – Juventus del 6 novembre 2004, una condotta
verbalmente e fisicamente aggressiva nei confronti della terna arbitrale, punitivamente
chiusa a chiave nello spogliatoio;
c) Gianluca Paparesta (non rileva più la posizione di Pietro Ingargiola, per essere la
decisione impugnata divenuta definitiva nei suoi confronti per mancata impugnazione) per
avere omesso di segnalare la condotta di Moggi, di cui alla lettera b);
d) Lanese, ai sensi dell’art. 1 cit., per avere avallato e consigliato l’Ingargiola a porre in
essere il comportamento omissivo addebitatogli;
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e) Moggi, di illecito ai sensi dell’art. 6, comma 1, CGS e la Juventus di responsabilità
diretta e presunta, per avere posto in essere atti diretti ad alterare le gare della società
torinese contro Lazio, Bologna ed Udinese;
f) Bergamo, di illecito sportivo in relazione alle gare da ultimo menzionate;
g) De Santis per la medesima violazione, per aver aderito al disegno di alterare, a favore
della Juventus, la gara di quest’ultima in trasferta a Bologna, precostituendo la necessaria
squalifica di giocatori di tale squadra, già diffidati, ammonendoli nel precedente incontro da
lui diretto.
In relazione al complesso ordito accusatorio la Commissione di primo grado ha osservato
che la fattispecie di illecito sportivo di cui all’art. 6 citato, può integrarsi anche attraverso il
compimento di atti diretti ad assicurare, a chiunque, un vantaggio in classifica,
aggiungendo che tale autonoma ipotesi può prescindere dall’alterazione dello svolgimento
o dal risultato di una gara, sotto il profilo che la classifica nel suo complesso può essere
influenzata da condizionamenti che, comunque, finiscano, indipendentemente dall’esito
di singole gare, per determinare il prevalere di una squadra rispetto alle altre.
In concreto, i primi giudici hanno ritenuto che tale effetto di condizionamento del
campionato 2004/2005 sia stato, dagli incolpati, raggiunto grazie all’alterazione del
regolare funzionamento del settore arbitrale ed alla lesione dei principi di alterità, terzietà,
imparzialità ed indipendenza tipici di tale funzione.
Ulteriormente, la decisione impugnata ha osservato che, nella struttura dell’atto di accusa,
sono individuabili specifiche condotte di per sé violative dei generali canoni posti dall’art. 1
citato, il cui insieme è stato giudicato idoneo a realizzare il condizionamento del regolare
funzionamento del settore arbitrale a vantaggio della Juventus, così risolvendosi in
un’attività diretta a portare alla società un vantaggio in classifica.
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Ed i primi giudici hanno espressamente aderito, in linea di principio, a questa impostazione
metodologica, diretta a surrogare la già segnalata carenza di punibilità in ambito federale
dell’associazione di più persone al fine di commettere un indeterminato numero di illeciti.
La Corte è dell’avviso che debba, logicamente, far precedere alla valutazione del materiale
probatorio a suffragio della impostazione prima illustrata il giudizio sull’ammissibilità,
espressamente contestata nelle impugnazioni degli appellanti, condannati in primo grado,
della doppia rilevanza disciplinare di una medesima condotta, considerata una prima volta
atomisticamente ed in sé, nella prospettiva che essa esprima il disvalore deontologico di
cui all’art. 1 CGS e riguardata cumulativamente ad altre condotte, nell’ottica finalistica che
essa abbia realizzato l’attività rivolta all’alterazione di gare, disciplinata, come illecito
sportivo, dall’art. 6 dello stesso codice.
La Corte ritiene che la decisione impugnata non meriti, sul punto, alcuna censura.
Ed invero, occorre prendere le mosse della struttura formale delle due violazioni
regolamentari di cui si tratta, e cioè l’art. 1 e l’art. 6 C.G.S..
La prima disposizione sancisce un generico obbligo di “lealtà, correttezza e probità in ogni
rapporto, comunque, riferibile all’attività sportiva”, così lasciando intendere che l’infrazione
al criterio generale di condotta in ambito sportivo può assumere configurazioni libere, cioè
non predeterminabili in ragione della loro forma e delle loro manifestazioni, ma qualificabili
in funzione della lesione del bene giuridico protetto dalla norma.
Ciò non toglie, tuttavia, che le condotte antigiuridiche, ai sensi dell’art. 1, possano in
concreto acquisire rilevanza casualmente efficiente nella prospettiva della commissione di
altre violazioni, costituendone mezzi idonei per la realizzazione, altrimenti non verificabile
o verificabile solo a condizioni diverse.
Ora, poiché l’art. 6, comma 1, prevede come illecito sportivo “il compimento, con qualsiasi
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mezzo, di atti diretti ad attuare lo svolgimento o il risultato di una gara ovvero ad
assicurare a chiunque un vantaggio in classifica”, è evidente che, anche nella
conformazione della norma in esame e coerentemente con la stessa impostazione del
sistema normativo dell’organizzazione federale, la nozione di mezzo quale strumento per il
compimento degli atti, in essa descritti, non soggiace ad alcuna predeterminazione di
tipicità e ricava la sua riconducibilità, in concreto, all’alveo della disposizione a seguito
della sua accertata capacità di consentire il compimento dell’atto punibile.
Ecco, allora, che nella ricostruzione dell’illecito sportivo occorre guardare alla natura
dell’atto – tema che sarà affrontato in seguito – e, nel contesto di questa indagine, è
necessario giudicare della relazione di efficacia causale del mezzo in concreto prescelto
rispetto al compimento dell’atto. Logicamente, nessun diaframma è ragionevole interporre
ad una doppia valutazione di rilevanza di una medesima condotta, sussumendola nei
binari del generale disvalore deontologico e, in ottica diversa, concependola come
ineliminabile tassello strumentale nella realizzazione dell’illecito ex art. 6, senza che ciò si
traduca – a differenza di quanto sostenuto dalle difese nel corso della discussione orale –
in una (inammissibile) somma algebrica di singole condotte qualificate come antidoverose
ex art. 1 e senza che l’operazione valutativa, di cui si dice, determini l’assorbimento di tali
condotte nel paradigma dell’illecito sportivo con (insussistente) perdita della loro originaria
natura e rilevanza (ed in questo senso va rettificata la motivazione di primo grado, senza
effetti quoad poenam, in difetto di appello).
Deve, infatti, escludersi, alla stregua della struttura delle due norme e dei differenti beni
giuridici protetti, che vi sia un rapporto di necessaria inerenza delle condotte
genericamente antidoverose alla figura dell’illecito o che esse se ne possano considerare
elemento costitutivo: si tratta di un occasionale, di volta in volta da verificare, apporto
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causale alla realizzazione dell’illecito sportivo fornito da una condotta, comunque,
espressiva di una trasgressione all’ordinamento sportivo.
Il giudizio che compete, quindi, a questa Corte, una volta risolta, in senso confermativo
della decisione impugnata, la questione di principio, è quello circa la sufficienza del
materiale probatorio per affermare, da un canto, la sussistenza delle condotte contestate
ed a stabilirne, d’altro canto, l’idoneità a convertirsi in mezzi utili al compimento degli atti
previsti dall’art. 6, comma 1, C.G.S.
Anche a questo proposito la Corte non ha dubbi nel dichiarare che i primi giudici,
contrariamente a quanto sostenuto in tutti gli appelli degli interessati, hanno fatto
ineccepibile governo del proprio compito relativamente ad entrambi i punti, con la
conseguenza che tutta la parte della decisione concernente la posizione della Juventus
va confermata in termini di affermazione di responsabilità, con le modifiche peggiorative,
conseguenti all’impugnazione della Procura Federale, delle pene irrogate a taluni incolpati
e migliorative, in relazione ai rispettivi appelli, per altri incolpati, nei termini di seguito
esposti.
Opportunamente la sentenza impugnata pone una doppia premessa al proprio giudizio:
essa va condivisa e fatta propria da questa Corte, con le precisazioni che seguono quanto
alla prima.
Questa concerne la necessaria valutazione congiunta delle posizioni dei due dirigenti
della società torinese, Moggi e Giraudo: le considerazioni che seguono costituiscono
risposta e confutazione agli articolati gravami proposti sia da costoro, che dalla società
Juventus.
E’, in particolare, condivisibile, perché rispondente ad esigenze di logica e congruenza
argomentativa la ragione posta a fondamento di questa scelta, e cioè l’accertata e
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concertata – come si vedrà oltre – confluenza dell’oggetto e del fine della loro attività
illecità nell’interesse della Juventus.
Le loro condotte dovranno, pertanto, essere guardate come avvinte da questo comune
intento, anche se in singoli casi, possano essere state poste in forma disgiunta perché
così suggerivano le circostanze o divisavano gli incolpati allo scopo di consolidare gli
effetti positivi per la società delle loro azioni.
La Corte ritiene che, all’interno di questa impostazione metodologica, debba innestarsi una
coppia di osservazioni che faranno riverberare i propri effetti differenziali rispetto alle
posizioni di altri incolpati, società e singoli tesserati, allorché queste saranno esaminate.
La prima è che, diversamente dalla situazione registrabile in altri capi di incolpazione, i
due dirigenti in questione hanno manifestato piena ed incondizionata libertà di azione
senza che risultino, agli atti, momenti di coordinamento con altri organi amministrativi della
società (costituendone essi il vertice) ed in particolare con la proprietà.
Questo non significa, in alcun modo, che le loro azioni non siano direttamente riferibili alla
società (così superandosi la contraria difesa di questa), che ne era altrettanto direttamente
beneficiaria e che non lo sarebbe stata se tali azioni non fossero state poste in essere.
L’incidentale osservazione va fatta per distinguere l’operato di Moggi e Giraudo da quello
di altri dirigenti sportivi (è il caso di Mencucci ed Andrea Della Valle) la cui azione, come si
vedrà oltre, non ha esplicato un grado di efficienza causale minimamente paragonabile a
quella degli altri incolpati o ad essa assimilabile quanto a qualificazione giuridica.
La seconda precisazione, puramente integrativa del sostrato metodologico della decisione
impugnata, è resa necessaria da una tesi difensiva corposamente discussa dal club
torinese e volta a porre in luce l’esistenza di una netta soluzione di continuità tra l’azione
di uno dei due dirigenti (Moggi) e l’interesse della Juventus, ed a ventilare che il primo
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agisse per scopi mercantili suoi propri.
La Corte ritiene che, del tutto esattamente, i primi giudici abbiano affermato la
responsabilità di Moggi con esclusivo riferimento a condotte ed episodi positivamente
refluiti o capaci di refluire sulla posizione sportiva della Juventus, sicchè, come si vedrà
dall’esame dei singoli casi, nessun dubbio può sorgere circa l’inerenza dell’affermazione
delle pesanti responsabilità del dirigente al trattamento punitivo riservato alla Juventus.
E’ pur vero che dagli atti del giudizio emerge la partecipazione di Moggi ad episodi
costituenti oggetto di contestazione ad altre società ed altri tesserati (è il caso della
Fiorentina e dei suoi dirigenti) ed in nessun modo collegabili alla posizione della Juventus.
Ma è anche vero che, con riferimento ed essi, nessuna censura sportiva è stata mossa a
tale società, che, quindi, non ha subito alcun effetto sanzionatorio pregiudizievole.
Semmai, tali partecipazioni dimostrano che Moggi, anche se agiva in proprio, era dotato di
quel potere condizionante della correttezza di significative componenti del settore arbitrale
di cui motivatamente parla la decisione impugnata ed al quale era necessario
(metaforicamente) inchinarsi per sopravvivere nel mondo della Serie A e non vedere
vanificati investimenti e patrimonio societario e non mortificare la buona fede e la
passione degli ignari sostenitori.
Venendo, adesso, alla seconda premessa della CAF, consistente nella dichiarazione
programmatica di non considerare atomisticamente i fatti accertati e le conversazioni
telefoniche intervenute tra i vari incolpati e di valutarli, piuttosto, nel loro complesso e nella
loro correlazione, la Corte non può non riconoscere l’ineccepibilità del metodo (ed
applicarlo a propria volta), trattandosi di criterio di analisi necessario avuto riguardo alla
natura delle contestazioni ex art. 6 nella parte relativa all’alterazione diretta a provocare il
sistemico vantaggio in classifica ed alla pronunciata inscindibilità tra la posizione di
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Moggi e quella di Giraudo.
Egualmente e senza riserve condivisibili appaiono – così ancora una volta, rispondendosi
in termini confutativi ai gravami che hanno inteso colpire la statuizione in parola - le
conclusioni di merito cui è pervenuta la Commissione di primo grado a seguito dell’esame
del materiale probatorio ad essa sottoposto.
In particolare, merita totale adesione il passaggio nel quale la decisione impugnata ricava
dagli elementi di prova raccolti la convinzione della compiuta verificazione dell’esito
dell’illecito sportivo, e cioè dell’alterazione della classifica, a vantaggio della Juventus, del
campionato 2004/2005, per effetto del condizionamento del settore arbitrale.
Va, preliminarmente, osservato, che i giudici di primo grado hanno chiaramente enunciato
non solo che l’alterazione ex art. 6 CGS, rilevante ai fini del presente procedimento, aveva
ad oggetto la classifica del campionato in questione nel suo complesso, ma che il
programma era destinato a realizzarsi attraverso il condizionamento del settore arbitrale.
Ad avviso della Corte, deve indiscutibilmente affermarsi così ancora una volta, facendo
giustizia degli argomenti sviluppati in senso contrario nei gravami - la piena e concreta
attitudine a falsare la classifica posseduta dall’opera di condizionamento del settore
arbitrale, per effetto delle scelte e delle decisioni dei relativi vertici, influenzati della
decisiva opera di Moggi e Giraudo.
Come detto, sono più che adeguati e più che congruamente valutati, dai primi giudici, gli
elementi di prova dell’avvenuto condizionamento di cui si dice (come risalta dalle espresse
citazioni racchiuse al punto nella decisione impugnata, alle cui pagine da 79 a 90 si fa
espresso rinvio).
In effetti, agli atti è affluita una quantità cospicua ed inequivoca di elementi dimostrativi:
a) della speciale cura che i due dirigenti dicevano dovesse essere posta nei rapporti col
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mondo arbitrale;
b) della natura, intensità, ambiguità e non trasparenza dei loro rapporti con i designatori
Pairetto e Bergamo, costellati da ripetuti incontri conviviali, privati ed esclusivi, da un
incalzante numero di colloqui telefonici, dall’inspiegabile (almeno secondo i canoni della
limpidezza comportamentale) affidamento di telefonini insuscettibili di intercettazione,
dall’intercessione, a fini commerciali (quali l’acquisto di autoveicoli del gruppo FIAT), a
favore di persone legate a Pairetto, da regali offerti ai designatori e capaci di generare un
pericoloso sentimento di riconoscenza da parte dei donatari nei confronti dei donanti e,
quindi, della società di questi ultimi, dalle pesantissime, insistite interferenze di Moggi nella
predisposizione delle griglie per il sorteggio arbitrale atte a sovrapporsi, sovrastandole, alle
scelte del designatore Bergamo, sia con riferimento agli arbitri, che agli assistenti e
coronate da sostanziale successo (nel senso della fungibilità funzionale dei prescelti
rispetto a quelli desiderati e richiesti: è il caso del “pan bagnato” Gemignani e Foschetti in
luogo della “zuppa” Ricci e Gemignani, pretesa da Moggi per la gara Juventus – Udinese,
del 13 febbraio 2005), dalle minacciose intenzioni manifestate da Moggi a Bergamo nei
confronti di arbitri che “sbagliano” (è il caso della subliminale richiesta di punizione nei
confronti di Collina e Rosetti), dalle attuate ed umilianti della dignità del soggetto passivo
minacce ed aggressioni contro altri arbitri che sbagliano (Paparesta dopo Reggina –
Juventus, del 6 novembre 2004).
Questi gli episodi, ripetuti nel tempo e nello spazio, incontroversi nella loro storicità,
congiuntamente o disgiuntamente posti in essere da Moggi e Giraudo e, comunque, tutti
obiettivamente tendenti alla precostituzione di condizioni dalle quali la Juventus potesse
trarre vantaggio di classifica nel campionato 2004-2005, episodi a cui la decisione
impugnata ha giustamente attribuito capacità causale adeguata per il conseguimento di
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tale risultato sperato.
Anche questo giudizio va integralmente condiviso e specularmene rigettata la articolata
censura mossa alla decisione impugnata da parte degli appellanti.
Ed invero, una volta chiarito che il condizionamento del settore arbitrale costituisce
sistema comportamentale idoneo all’alterazione del campionato, va aggiunto che, ad
avviso della Corte, i mezzi in concreto posti in essere (e prima analiticamente descritti)
vanno definiti, senz’altro, idonei allo scopo, sia con valutazione ex ante che, per semplice
completezza espositiva, con valutazione ex post.
Si consideri, al riguardo, che in astratto le condotte di Moggi e Giraudo non potevano non
sortire il risultato auspicato in riferimento agli allettanti vantaggi diretti ed indiretti offerti ai
designatori (anche individualmente), all’ineffabile confidenza nei rapporti personali, alla
pervasività della presenza dei dirigenti juventini nelle scelte riservate all’ufficio di costoro;
al tempo stesso, l’idoneità ex post delle condotte stesse, nella prospettiva dell’art. 6 CGS,
si deduce, senza perplessità alcuna, dalla supina predisposizione, mostrata dai
designatori stessi (anche separatamente) a seguire le indicazioni di Moggi e Giraudo (in
materia di designazione di assistenti,concertazione della formazione delle griglie, piena
connivenza omissiva rispetto ad episodi minacciosi ed aggressivi di cui Moggi era stato
autore).
A questa stregua, la decisione impugnata va confermata (rimanendo, come esposto nella
parte precedente, priva di conseguenze sul trattamento sanzionatorio per difetto di
impugnazione, sul punto, la ritenuta ammissibilità di concorso tra art. 1 ed art. 6 CGS per il
caso di medesima condotta autonomamente valutabile nella doppia prospettiva): delle
pene da irrogare agli incolpati si dirà al termine della trattazione del complesso delle
incolpazioni relative alla Juventus.
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Corretta e consequenziale è l’affermazione della responsabilità diretta della società
rispetto ai fatti di cui è stato ritenuto responsabile il suo rappresentante legale Giraudo.
* * * *
Va, altresì, confermata la decisione impugnata – con conseguente rigetto dell’appello della
Procura Federale - nella parte in cui ha ritenuto non essere stata raggiunta la prova della
responsabilità di Mazzini, Pairetto, Lanese e De Santis in ordine alla violazione dell’art. 6,
comma 1, C.G.S., contestata a Moggi e Giraudo di cui ci si è appena occupati, fermo
restando l’altrettanto condivisibile accertamento di rilevanza di talune condotte, ai fini
dell’art. 1 e nei termini di cui si dirà oltre.
In particolare, la Commissione ha esattamente rilevato che non fosse stata raggiunta la
prova né dell’intenzionale direzione delle condotte degli appellanti, né della loro idoneità
allo scopo.
A questo proposito la Corte rileva che la configurabilità dell’illecito ex art. 6 CGS non può
che fondarsi su una prova solida ed al di là di ogni ragionevole dubbio che l’atto umano
oggetto di incolpazione riveli (oltre che la sua idoneità al raggiungimento del risultato
vietato) la volontà dell’agente di realizzare, con dolo specifico, l’illecito, in quanto il
paradigma normativo, nell’utilizzare il termine “diretti” con riferimento agli atti, pone un
rapporto di necessaria implicazione tra la natura dell’atto in sé ed il fine illecito che, tramite
lo stesso, l’autore si propone.
Il difetto della prova che ad ispirare la condotta dell’incolpato fosse il conseguimento del
risultato illecito non può che risolversi, come esattamente osservato dalla CAF, ed
infondatamente contestato dalla Procura Federale, nel fallimento dell’ipotesi di ricorrenza
dell’illecito.
Ora, nel caso di specie, non vi sono elementi che consentano di affermare, con certezza,
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che gli appellati, tramite condotte pur deontologicamente reprensibili ex art. 1 CGS, come
si dirà, avessero un interesse chiaro, diretto ed inequivoco a favorire la Juventus, né una
convincente prova, in tal senso, è stata fornita o dedotta: resta il fatto in sé di condotte
scorrette o sleali, ma ciò non basta a far presumere che vi fosse il fine palese o occulto di
determinare l’alterazione del campionato a favore della Juventus, soprattutto in assenza di
adeguato movente.
La Corte ritiene che il dubbio possa residuare nei confronti di Pairetto a causa dei ripetuti
contatti commerciali, mediati da Moggi, per l’acquisto di veicoli Fiat scontati anche a favore
di terzi: il comportamento è certamente riprovevole e scorretto – ciò che rileva ai fini della
determinazione della sanzione, in sede di esame dell’appello della Procura Federale, che,
in virtù del proprio effetto devolutivo, investe per intero la posizione dell’appellato - ma
non integra la certezza di un atteggiamento favoritistico, soprattutto se si considera il
minor ruolo nella vicenda di tale designatore rispetto all’altro, almeno quale emerge dagli
atti.
Analogamente, va confermata l’affermazione di responsabilità di Lanese ex art. 1 CGS,
sotto il duplice profilo, congruamente valorizzato dai primi giudici, dei ripetuti, confidenziali
ed impropri incontri con i dirigenti juventini e dei rapporti commerciali intrattenuti con essi.
Nessun rilievo escludente o attenuante della responsabilità di Lanese può essere
riconosciuto, contrariamente a quanto sostenuto dalla sua difesa, alla necessità degli
incontri a causa del ruolo, in senso lato politico, di Presidente dell’AIA.
In contrario valgano tre considerazioni:
a) mentre vi è la prova di un eccesso di confidenza conviviale e commerciale, del tutto
inappropriata e biasimevole, tra l’incolpato e Moggi e Giraudo, non vi è alcuna prova della
connessione di tali incontri con il perseguimento di fini istituzionali dell’Associazione,
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piuttosto che personali;
b) proprio la delicatezza del ruolo istituzionale avrebbe imposto all’incolpato un
supplemento di prudenza, avvedutezza ed integrità;
c) Lanese ha, comunque, impropriamente beneficiato, grazie al fattivo intervento dei
dirigenti juventini, di sconti commerciali che mai avrebbe dovuto chiedere – quale che ne
fosse l’importo – a persone che avrebbero potuto strumentalizzare la situazione di
riconoscenza psicologica di cui egli sarebbe stato inevitabilmente portatore.
Conseguenzialmente all’esclusione della responsabilità ex art. 6 degli estranei alla
Juventus, va negata la relativa responsabilità presunta.
* * * *
Va confermata la decisione impugnata anche nella parte relativa alla gara Reggina –
Juventus che qui viene in rilievo per ciò che concerne la condotta aggressiva e minacciosa
rilevante ex art. 1 CGS, di Moggi e Giraudo, al termine della gara, nei confronti della terna
arbitrale.
Viene, poi, contestata alla società torinese la responsabilità diretta,all’arbitro Paparesta la
mancata segnalazione della condotta ed al Presidente Lanese il fatto di avere incoraggiato
il comportamento omissivo dell’osservatore Ingargiola.
Ad avviso della Corte è inattaccabile la ricostruzione in fatto dell’episodio effettuata dai
giudici di primo grado, con conseguente rigetto dei gravami miranti ad una riforma della
decisione sul punto.
La Commissione ha posto in rilievo che dalle risultanze processuali (ed in particolare dalle
indagini effettuate dal Nucleo Operativo dei C.C. di Roma, e trasfuse nel rapporto del
relativo Comando Provinciale, oltre che dall’intrecciarsi delle intercettazioni telefoniche dei
colloqui tra Lanese ed Ingargiola, avvenuti in due riprese dopo il termine della partita, da
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un lato, e di quelle tra Moggi e terzi ripetute nel tempo, dall’altro) emerge l’atteggiamento
minaccioso ed irriguardoso assunto, con modalità diverse, ma egualmente deprecabili
(l’uno minaccioso, l’altro irriguardoso), nei confronti di arbitro ed assistenti, alla presenza
anche del quarto ufficiale e dell’osservatore Ingargiola, da parte di Moggi e Giraudo.
La ricostruzione è precisa ed incontestabile, ed indiscutibile è la rilevanza in termini di
disvalore deontologico delle condotte, a vario titolo, ascritte agli incolpati.
In particolare, si consideri la narrazione dell’episodio (cfr. telefonata, prog. 907), effettuati
con toni a metà strada tra il grottesco e l’incredulo dall’osservatore Ingargiola a Lanese, il
quale, ascoltando il racconto del collaboratore secondo cui non aveva mai visto un
episodio simile nella propria vita, non trovava di meglio che impartirgli la
raccomandazione, come spessissimo è avvenuto nelle varie conversazioni telefoniche agli
atti, di badare ai fatti propri (evidentemente non coincidenti con quelli dell’istituzione che
rappresentava).
Sulla medesima linea era il racconto telefonico di Moggi ad un giornalista (prog. 140), nella
quale il dirigente si vantava di averli “fatti neri tutti quanti” e di averli “chiusi a chiave” con
l’intento, poi scongiurato da qualcuno imprecisato di “portà via le chiavi”: cfr. le risultanze a
pag. 25 e 26 dell’informativa di reato del Comando Provinciale di Roma dei C.C. redatta il
19 aprile 2005.
I dirigenti hanno, infatti, violato gli spazi riservati alla direzione tecnica della gara e posto
in essere un comportamento lesivo del loro onore e della loro dignità; l’arbitro Paparesta
ha, in modo certo, tollerato l’incresciosa situazione ed omesso di denunciarla, anche a
tutela del prestigio della funzione, oltre che individuale; il presidente Lanese ha tradito il
proprio compito istituzionale di tutela della categoria ed il proprio dovere di ligia
osservanza delle norme federali e di settore.
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Il tema delle sanzioni sarà affrontato in esito alla trattazione della prima parte della
decisione impugnata.
* * * *
Per concludere l’esame della decisione appellata laddove è dedicata alla posizione della
Juventus, vanno affrontate le impugnazioni di incolpati e Procura Federale relativamente
alle gare Juventus – Lazio e Bologna – Juventus (e, quale possibile antecedente logico,
Fiorentina – Bologna) e concernenti gli incolpati Moggi, De Santis e F.C. Juventus S.p.A.
La Corte ritiene che le statuizioni, sul punto, della decisione impugnata (ad eccezione di
quelle relative alla determinazione delle sanzioni, di cui si dirà in seguito) debbano essere
confermate.
Ed invero, è da condividere la generale conclusione della CAF secondo cui l’interferenza
nella designazione arbitrale, riferibile ad un tesserato, non può dar luogo ad illecito
sportivo ove non vi sia la prova rigorosa che a tale attività abbia fatto seguito l’ulteriore
segmento che l’interesse per la designazione di uno specifico arbitro, manifestato da un
dirigente di società sportiva, pervenga all’arbitro stesso e che da parte di esso traspaia,
comunque, adesione alla richiesta.
L’assenza del “segmento” tecnico della fattispecie a formazione progressiva (tale perché
necessitante la concorrente partecipazione di più soggetti, ciascuno con competenze e
responsabilità di ruolo adeguati al raggiungimento del risultato alterativo della gara,
competizione o classifica) ne impedisce il relativo perfezionamento, mentre non osta
affatto alla possibile sussumibilità delle condotte appartenenti al segmento iniziale
(condotte interferenti) e , quindi, definibili come meri atti preparatori, nel paradigma di
quelle poste in violazione dell’art. 1 CGS.
Più in particolare, la decisione impugnata ha isolato, dal contesto delle incolpazioni in
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esame, la posizione di Moggi decretandone correttamente la rilevanza nei termini appena
menzionati, del tutto antagonisti rispetto alla contraria tesi difensiva.
Il profuso materiale probatorio dimostra che vi fu un incontro, di pochi giorni precedente la
gara Juventus – Lazio, tra Moggi, Giraudo, Pairetto e Bergamo e, altresì, che l’indomani di
tale incontro e prima della comunicazione ufficiale del nome degli arbitri sorteggiati il primo
ne fosse già a conoscenza.
Vi è, altresì, la prova, in atti, dell’indebita interferenza di Moggi su Bergamo in vista della
formazione della griglia di arbitri destinati a dirigere gare da disputare nella giornata in cui
si giocava Juventus – Udinese.
Non può, però, ritenersi raggiunta – contrariamente all’assunto della Procura Federale – la
prova che all’arbitro De Santis fosse pervenuta la richiesta di Moggi – pur adombrata nel
corso di una apposita conversazione telefonica, di cui a pag. 102 della decisione – di
intervenire punitivamente sui giocatori diffidati del Bologna per renderne certa la squalifica
nella successiva gara che tale squadra avrebbe disputato contro la Juventus, né che suoi,
eventuali, errori tecnici disvelassero una illecita volontà favoritistica per tale squadra.
Conclusivamente, va confermata la riconducibilità delle condotte di Moggi alla trama
dell’art. 1 ed esclusa qualunque responsabilità di De Santis a proposito dell’incolpazione in
esame.
Concluso l’esame delle varie ed articolate posizioni, ricomprese nei capi di incolpazione da
1 a 10, la Corte osserva quanto segue in relazione alle sanzioni da irrogare ai soggetti
dichiarati colpevoli e, in via preliminare, ai criteri di presidio per la relativa determinazione.
La decisione di primo grado ha combinato i criteri di applicazione della pena risultanti dal
primo comma dell’art. 13 C.G.S., e dipendenti dalla natura e gravità dei fatti commessi con
quelli, sempre in punto di gravità, desumibili dall’art. 133 del codice penale e legati alle
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modalità delle azioni poste in essere, alla loro incidenza concreta rispetto al campionato
2004/2005 ed all’immagine dello sport italiano, all’intensità della colpevolezza in relazione
alle singole posizioni funzionali, all’accertata pluralità di illeciti, alle condizioni economiche
del responsabile (nel caso di ammende), alla lesione arrecata alla funzione ed
all’immagine della categoria ( rispettivamente di dirigenti federali ed arbitri).
La Corte ritiene che, in linea di principio e con riferimento alla generalità dei casi su cui è
chiamata a pronunciarsi, debbano essere tenuti in considerazione i citati criteri ispiratori di
natura generale ed astratta, salva la necessità di concreta commisurazione e
temperamento con ulteriori criteri integrativi da applicarsi nei singoli casi in modo da
realizzare un bilanciamento tra la doverosa afflittività della pena e particolari condizioni
soggettive ed oggettive tale da portare ad una determinazione equa e ragionevole della
sanzione.
Con riferimento alle posizioni, sin qui, esaminate la Corte osserva quanto segue.
Va confermata la pena di cinque anni di inibizione e proposta al Presidente federale di
preclusione alla permanenza in qualsiasi rango o categoria della F.I.G.C. e all’ammenda di
50.000 euro motivatamente inflitta a Moggi alla luce sia dell’affermata responsabilità per
gravi episodi di illecito sportivo, sia dalla protrazione nel tempo, sostanzialmente
corrispondente allo svolgimento del campionato 2004/2005, della sua condotta
strutturalmente rivolta al conseguimento dello scopo di alterazione della competizione per
effetto del condizionamento della classe arbitrale, sia, infine e con particolare rilievo, alla
luce della completa realizzazione in termini effettuali dell’illecito disegno, che ha incrinato
la pubblica fiducia nella lealtà delle competizioni sportive.
Considerazioni analoghe valgono per Giraudo, la cui pena va confermata, anche se essa
contempla una più lieve sanzione economica (20.000 euro di ammenda) a causa della
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minor frequenza dei colloqui telefonici con i designatori, senza che ciò possa essere, in
alcun modo, considerato indice di dissociazione o inconsapevolezza dall’operato di Moggi
e della sua attività strutturalmente orientata verso scopi illeciti.
Per quanto concerne la pena da irrogare alla società Juventus occorre tenere conto
cumulativamente di una serie di fattori.
In primo luogo, deve porsi nel dovuto rilievo il, già ricordato, carattere stabile e duraturo,
nel corso della stagione sportiva 2004/2005, della condotta illecita ed antidoverosa dei
propri dirigenti, del conseguimento dell’obiettivo di condizionamento a proprio favore del
settore arbitrale, dell’ulteriore vantaggio dell’alterazione della classifica e dell’ottenimento
della vittoria del campionato, della rimarchevole ed irreparabile alterazione della parità di
condizioni di contendibilità del titolo sportivo rispetto a molte altre squadre, del beneficio
tratto dalle condotte dei propri dirigenti che, seppure non diano formalmente vita ad un
“sistema”, solo per difetto della previsione dell’illecito sportivo associativo, sicuramente
possiedono il carattere altamente inquinante della sistematicità e della stabilità
organizzativa: l’aggregazione di tutti questi disdicevoli elementi è, peraltro, addebitabile,
tra tutti gli incolpati del presente procedimento, solo alla Juventus, ciò che ne rende
incomparabile, in negativo, la posizione rispetto ad ogni altro.
Va poi tenuto conto della ricorrenza dell’aggravante dell’effettivo conseguimento del
vantaggio in classifica, come prescritto dall’art. 6, comma 6, C.G.S..
A fronte di tali pesantissimi elementi negativi appare equo porre, con il dovuto effetto
mitigativo della pena, rispetto a quella inflitta in primo grado, l’importante e prestigiosa
storia sportiva, di cui ha sempre percepito i frutti anche la prima squadra nazionale, della
società (elemento di cui l’ordinamento sportivo tende, sempre più spesso, a tener conto,
come dimostra il favore verso la riammissione in campionati immediatamente meno
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elevati, di quello di competenza, di società dichiarate, fallite, ma portatrici di un glorioso
passato atletico) nonché la rimozione, o la mancata opposizione alle dimissioni, dei
dirigenti responsabili della condanna.
Va ritenuta congrua la seguente pena che, necessariamente, interviene lungo una triplice
traiettoria temporale:
1) la sanzione della revoca dell’assegnazione dello scudetto 2004/2005 è l’effetto diretto
dell’accertata alterazione del campionato ad opera della società e dei suoi dirigenti e va
inflitta come pena autonoma, ai sensi della lettera i) dell’art. 13 CGS, così confermandosi
la decisione di primo grado;
2) la sanzione della non assegnazione del titolo di campione di Italia 2005/2006 e della
retrocessione all’ultimo posto in classifica nello stesso, ai sensi del combinato disposto
della disposizione da ultimo citata e della lettera g) della norma in questione, dipendono
dalla circostanza che va considerato “campionato di competenza”, a scopi concretamente
sanzionatori, quello nel quale l’illecito è accertato (argomentando dalla logica
osservazione sviluppata, sul punto, dalla Commissione disciplinare nella propria decisione
del 27 luglio 2005, in comunicato ufficiale n. 10 della Lega Nazionale Professionisti,
relativa al cd. “caso Genoa”) o giudicato, allorquando non sia più possibile intervenire su
quello in cui l’illecito fu consumato (che costituisce la cornice tipica del campionato di
“competenza”): sanzione generata dalla speciale gravità dei fatti commessi e, dunque, da
confermare, assieme a quella pecuniaria di 80.000 di ammenda, certamente commisurata
alle capacità economiche della società.
3) la sanzione della penalizzazione nella prossima stagione sportiva, volta ad attribuire
adeguata efficacia anche deterrente al trattamento complessivo, nella misura
ragionevolmente affittiva, di 17 punti (molto prossima alla dichiarazione di congruità della
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pena resa esplicita in primo grado dal difensore della società, su espressa sollecitazione
del Presidente del Collegio) e della squalifica per 3 gare di campionato del campo di
giuoco, così riformandosi equitativamente l’originaria pronuncia.
Va confermata la sanzione di due anni e sei mesi di inibizione irrogata a Lanese, tenuto
conto dell’opacità delle condotte ascrittigli, in particolare modo incompatibili con il prestigio
della carica di Presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, e del conseguente disdoro
provocato per il prestigio della categoria.
Per ciò che concerne la posizione di Pairetto è da ribadire l’effetto devolutivo generale in
ordine all’esame della sua posizione conseguito all’impugnazione della Procura Federale.
Valutando i suoi comportamenti emergono gravi ed univoci sintomi di disvalore e prove di
ripetute offese alla deontologia e alla credibilità della sua delicatissima funzione di
designatore arbitrale, seriamente compromessa dalle frequentazioni e dai rapporti descritti
nella parte che precede.
La Corte ritiene debba essere, pertanto, opportunamente aggravata la pena inflitta in
primo grado, elevandola da due anni e sei mesi a tre anni e sei mesi di inibizione.
Venendo alla posizione di Paparesta, la Corte rileva, in primo luogo ed in aderenza a
principi generali dell’ordinamento giuridico, come la pendenza del presente procedimento
disciplinare precluda la possibilità di assoggettamento ad ulteriore sanzione in ogni ambito
e settore dell’ordinamento federale della medesima condotta fenomenicamente intesa,
fatta salva la possibilità da parte dei competenti organi tecnici di dedurre dagli
accertamenti racchiusi, in via definitiva, nel presente giudizio elementi di valutazione di
ordine tecnico – professionale, ai fini propri del settore arbitrale.
Ciò premesso, la Corte è certa che sia tutt’altro che eccessiva, e che vada quindi
confermata, la sanzione dell’inibizione per tre mesi inflitta dai giudici di primo grado, tenuto
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conto della gravità della violazione, sintomatica di un atteggiamento remissivo e debole di
un prestigioso arbitro internazionale di fronte a fatti mortificanti per la sua persona e per la
dignità della funzione.
Incidentalmente va osservato, così rispondendo ad una apposita deduzione difensiva, che
la pena si considera espiata dal momento iniziale in cui essa produce l’effetto affittivo,
computando in essa anche la eventuale sospensione cautelare comminata dall’AIA.